Editoriali


Anno I, 1, gennaio-giugno 2008

Editoriale

CENTRO STUDI ESPERIDE: LA CULTURA COME PUNTO DI FORZA

di Mario Panarello


Nato grazie agli sforzi congiunti di un gruppo di studiosi con alle spalle una consolidata esperienza di ricerca, spinta sino a investire l'intero territorio regionale, il Centro Studi Esperide onlus intende promuovere lo studio, la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale della Calabria, per lungo tempo oggetto di scarsa considerazione a livello non solo scientifico. Obiettivo fondamentale del centro è creare un punto di riferimento e di sostegno per tutti coloro che spendono le proprie energie nello studio, tentando con fatica di delineare l’identità artistica e architettonica di una regione funestata da eventi tellurici e altre calamità naturali, ma forse soprattutto dall’indifferenza delle autorità centrali e locali, fattori che ne hanno decimato il patrimonio culturale e disperso fonti e documenti. Il centro, dunque, non si rivolge soltanto ai ‘’tecnici’’, ma anche ai cultori e agli appassionati di storia locale, in alcuni casi facenti capo ad altre realtà associative analoghe, i quali si sono talora dimostrati più operativi degli enti istituzionalmente preposti alla ricerca, sebbene incapaci, per mancanza degli strumenti metodologici adeguati, di superare il ristretto ambito localistico. Nella speranza che la comune passione per la ricerca possa tramutarsi in fattore di coesione e consentire di superare le divisioni e le insulse forme di competizione che a vari livelli finiscono per rappresentare ostacoli insormontabili per una proficua collaborazione tra gli studiosi. Vorremmo, insomma, che , almeno nell’ambito degli studi, finisse l’epoca della Calabria ‘’a compartimenti stagni’’,, per utilizzare un’espressione abusata ma quanto mai efficace, se pensiamo alla chiusura e indifferenza che caratterizza l’atteggiamento di tanti operatori culturali nei confronti di iniziative intraprese da altri interlocutori o in altre realtà geografiche. Questa sorta di conflitto latente, che spesso si può cogliere anche tra le istituzioni, rappresenta senz’altro un fattore di debolezza per il progresso degli studi. Nella convinzione che la collaborazione tra gli specialisti e cultori di storia locale possa aprire nuovi orizzonti alla ricerca, offrendo la possibilità di una conoscenza e di una penetrazione capillare del territorio, il centro intende coinvolgere nelle proprie iniziative sia le giovani leve, studenti e neolaureati, sia gli studiosi più esperti, coordinati ed orientati da un’ equipe di tecnici, ciascuno per la propria specifica competenza, in un quadro fortemente multidisciplinare, perché siamo convinti che una corretta valorizzazione delle risorse culturali di una regione può scaturire solo dal coinvolgimento di professionalità operanti nei vari settori chiamati in causa: dagli storici ai progettisti, dai geologi ai restauratori, agli antropologi ecc.
Il presente periodico vuole essere il punto di arrivo del percorso che abbiamo sin qui delineato, lo specchio dei risultati dei programmi di ricerca condotti e coordinati dal Centro Studi Esperide, ma soprattutto uno strumento messo a disposizione di quanti, anche oltre i confini della Calabria, portino avanti studi e ricerche relative alla cultura artistica espressa dalla regione o in essa innestata tramite i canali dell’importanza di opere e della circolazione di maestranze. Proprio perché precipuamente indirizzati agli operatori del settore, i contributi dovranno presentare un taglio scientifico rigoroso, unito però a chiarezza espositiva e ricco corredo iconografico, onde agevolare la comprensione delle problematiche anche da parete del pubblico di curiosi e appassionati che intendano approfondire la conoscenza del nostro patrimonio culturale. Ciascun numero, a cadenza semestrale, sarà articolato in tre sezioni: la prima dedicata all’approfondimento di tematiche di storia delle arti figurative e dell’architettura, la seconda alle indagini documentarie, la terza a problematiche di tutela e restauro, con particolare riguardo ad esperienze ed interventi già porti a compimento, lasciando da parte gli studi preliminari e di fattibilità che spesso rischiano di rimanere sulla carta. Chiudiamo con un sentito ringraziamento alle Amministrazioni Provinciali di Catanzaro e di Reggio Calabria che, aderendo sollecitamente all’iniziativa, hanno reso possibile la stampa di questo primo numero.



Anno I, n. 2, luglio-dicembre 2008

Editoriale

SUI BINARI DELLA RICERCA:
MOTIVAZIONI IDEALI E ISTANZE METODOLOGICHE



di Monica De Marco


Che senso può avere, oggi, scegliere come oggetto dell’indagine storica un patrimonio artistico, tutto sommato alquanto modesto, come quello calabrese? E’ l’interrogativo che prima o poi giunge a porsi chiunque si dedichi a tale campo di ricerca. Sicuramente si tratta di studi che generalmente non solo non aiutano molto a fare carriera negli ambiti accademici, ma per giunta rischiano di porre in cattiva luce chi li pratica attirandogli la bolla del provincialismo. A questo bisogna aggiungere il fatto che i risultati scientifici conseguiti non destano sovente l’interesse sperato. Di fatto, allo sguardo esterno di uno studioso avvezzo a manipolare argomenti decisamente più aulici, il patrimonio calabrese può apparire desolante e, anche se talora con sguardo compassionevole siano disposti ad ammettere che pure non manchino le testimonianze di un certo interesse, mai si adopererebbero ‘’seriamente’’ a perderci sopra del tempo per uno studio globale come si farebbe se ci si trovasse a Roma o a Firenze. Eppure, sebbene, lo ammettiamo, alquanto meschino, e anche peggio se si tengono in conto fattori come il contesto e il degrado, il patrimonio ‘’locale’’ deve esse studiato e non si può farlo che attraverso gli strumenti metodologici approntati dalla ‘’grande’’ storiografia e con la medesima serietà. Del resto, la comprensione dei fenomeni locali, per quanto modesti, non può prescindere dai nessi genetici con i ben più pregnanti sviluppo della ‘’grande’’ storia. Non intendiamo affermare che per studiare il patrimonio regionale occorra essere necessariamente calabresi, nel qual caso verremmo immediatamente smentiti da illustri esempi come Paolo Orsi, ma senz’altro è difficile farlo se non si è spinti da profonde motivazioni ideali. Ci piace qui riportare quanto scritto da Luigi Accattatis a proposito dell’amico Vito Capialbi, che fu tra i pionieri in questo campo, pur con tutti i limiti che lo confinarono nell’ambiente dell’erudizione ottocentesca: «Soleva dire che la storia di tale piccolo comunello della Calabria era tale impresa, che a volerla condurre bene a termine spaventava i più arditi». E ancor prima: «Aveva compreso l’importanza delle piccole cose, o per meglio dire era persuaso che in fatto di ricerche storiche piccole cose non si hanno». Sono qui tracciate le coordinate fondamentali che orientano gli studi ‘’locali’’: da un lato il percorso accidentato di una ricerca spesso costretta ad avanzare con scarsi appigli documentari, dall’altro la consapevolezza che la tendenza a misurare il valore dello studio sull’importanza che si attribuisce nell’ottica comune all’oggetto dello stesso ha tutti i limiti del pregiudizio. Pregiudizio che è alla base di quella sorta di complesso di inferiorità latente che ostacola la capacità dei calabresi di riappropriarsi della propria storia. Come ebbe a scrivere Maria Pia Di Dario, in relazione alla responsabilità degli organi preposti ai Beni Culturali rispetto alla stato di abbandono in cui versano le testimonianze artistiche e storiche specie nel Sud, «le motivazioni profonde anche degli orientamenti burocratici ci sono da imputare ai preconcetti della storiografia nei riguardi della cultura artistica delle regioni meridionali che contribuiscono a condizionare anche le provvidenze pubbliche di tutela e di conservazione». In tale situazione l’unica via percorribile per una rivalutazione degli aspetti della cultura meridionale è quella della ricerca scientifica che partendo da un attento scrutinio delle opere e dei documenti le ponga nei loro giusti contesti storici e culturali contribuendo alla ricostruzione della storia culturale della regione’’. Da qui la responsabilità dello storico e tulle le complesse implicazioni culturali, sociali, persino economiche, che possono scaturire da un ‘’prodotto’’ apparentemente di nicchia, come quello della ricerca. Siamo giunti al secondo numero e, anche in questo caso, non possiamo fare a meno di ringraziare quanti hanno concorso alle spese di stampa: in primo luogo l’Amministrazione Provinciale di Vibo Valentia, ma anche i soci e sostenitori che hanno creduto e continuano a credere nell’iniziativa. Un ringraziamento particolare a Nino Aiello per il generoso contributo e a Fabio De Chirico, Soprintendente BSAE della Calabria, per la sua cortese disponibilità.



Anno II, nn. 3-4, gennaio-dicembre 2009
Editoriale 

L’OTIUM, LA RICERCA STORICA E I NUOVI MEDIA

di Monica De Marco


Pur senza compiere un vero e proprio sondaggio, semplicemente affacciandosi di tanto in tanto nelle sale studio degli archivi calabresi, si può affermare che la ricerca d’archivio nella nostra regione, e forse non solo, è sempre di più appannaggio dei pensionati, frequentatori assidui, che si vedono talora affiancati da qualche sparuto studente alle prese con la tesi di laurea. È un fenomeno per certi versi ovvio, visto che la ricerca in Italia, meno che mai quella storica, non solo non è ripagata ma non è avvertita come risorsa né dalle istituzioni né dalle comunità. Conversando con questi ricercatori per vocazione, a volte tardiva - ma questo conta poco - si scopre che ci si ritrova davanti a persone provenienti dalle più disparate categorie professionali, dagli insegnanti agli avvocati, dai medici agli operai. Bisogna ammettere che la ricerca scientifica in diversi casi deve proprio a questi studiosi per diletto , mossi esclusivamente dal desiderio di recuperare la propria storia, scoperte ed indicazioni fondamentali per il progresso degli studi, pur essendo di rado disposta ad ammetterlo. Vi sono, inoltre, nel fenomeno altri risvolti su cui occorrerebbe riflettere. Innanzitutto, si tratta di un procedere che implicitamente è governato da un proprio metodo, basato sulla centralità delle persone rispetto all’oggetto della ricerca. Questa tendenza ad assumere il dato umano quale punto di partenza dell’indagine determina una forte integrazione delle testimonianze orali rispetto alle fonti scritte e a quelle archivistiche, anche se a volte la mancanza di un’idonea metodologia impedisce di imbastire un discorso storico attendibile. In un certo senso è un ulteriore esito di quel fenomeno di democratizzazione della cultura che ha senz’altro subito una forte accelerazione con la comparsa del mezzo informatico. Internet è il veicolo privilegiato di una sorta di cultura parallela, dove, come in un crogiuolo, confluiscono informazioni di natura diversa e di cui è sempre molto difficile verificare l’attendibilità. Tuttavia, il fenomeno sottende un dato di fatto inconfutabile: la forte domanda di conoscenza che investe principalmente il campo storico, ma anche quello storico-artistico, in particolare se connesso all’esplorazione delle risorse cultural i- e di riflesso turistiche - del territorio. Nel contempo si registra un difficoltà di dialogo con i detentori del sapere scientifico, probabilmente a causa di quell’aura di intoccabilità, di aristocratico distacco che sovente scoraggia qualsiasi approccio. Ci si perdoni il tono - al consueto tra l’ironico e il sarcastico - ma resta il fatto che oggi anche gli specialisti, pur rifiutandosi generalmente di ritenere un sito web citabile in una bibliografia che si rispetti, non possono fare a meno di ricercare informazioni tramite i canali della rete. In realtà, le fonti telematiche andrebbero considerate alla stregua di tutte le altre e assoggettate agli stessi criteri metodologici. In sostanza, ciò che fa la differenza è, per usare un termine in voga, è la tracciabilità del percorso di ricerca che sta a monte della singola informazione, dando per scontata, anche nei casi in cui vi fossero chiari riferimenti bibliografici, la necessità di procedere ad una diretta verifica delle fonti citate. Diversamente, qualora non ve ne fossero i presupposti, l’informazione reperita va intesa semplicemente quale input per impostare una sorta di percorso di ricerca a posteriori che potrebbe rivelarsi poco agevole. Del resto, in un mercato in cui prendono sempre più piede le edizioni elettroniche, gli e-book, a fianco o in alternativa al cartaceo, non avrebbe senso discriminare quelle pubblicazioni, anche non banali – basti pensare alle tesi di dottorato- che veicolano solo, o principalmente, attraverso la rete. Crediamo dunque, che, soprattutto quando si attingono da questo genere di fonti dati diversamente inediti, bisognerebbe avere l’onesta di dichiarare apertamente la sorgente dell’informazione. Altro discorso è l’uso del web come lo intendono, purtroppo, tanti studenti, anche universitari, che finiscono per costruire intere tesi attraverso un collage quasi meccanico di copia/incolla, dimostrando di non aver recepito alcun indirizzo metodologico.



Anno III, nn. 5-6, gennaio-dicembre 2010

Editoriale

POLITICA, CULTURA, SOCIETÀ: UN TRIANGOLO SPEZZATO

di Domenico Pisani


Mi accingo a scrivere queste brevi note introduttive consapevole che ben pochi le leggeranno: lo faccio perché, dopo aver assunto l’incarico di Coordinatore del Comitato Scientifico di questa rivista, ne ho sentito subito il peso ed è pertanto doveroso esprimere il mio pensiero. Purtroppo una politica miope priva molte iniziative legate alla Cultura della possibilità di attingere a finanziamenti pubblici, che vengono, però, profusi a piene mani per tutto ciò che può facilmente tradursi in voti e clientele. Abbiamo dovuto prendere atto che non è ritenuto opportuno finanziare iniziative “di nicchia”, fruite da poche persone e, anche se non si possono dare tutti i torti ad assunti come questo, si può, tuttavia, argomentare che in Calabria non c’è un’altra rivista che si occupi esclusivamente di studi sulla storia dell’arte e della valorizzazione del suo patrimonio artistico in modo scientifico. E questo perché sono purtroppo in molti a pensare che l’arte in Calabria sia legata solo al nome di Mattia Preti e che tutto il resto sia riconducibile ad arti minori prodotte dalle classi subalterne. L’intento è, dunque, quello di far capire, anche catturando l’attenzione di un pubblico non specializzato, che questa terra non desta solo interessi pittoreschi o antropologici ma possiede un cospicuo numero di opere da tutelare e divulgare tramite una rigorosa ricerca storica e artistica. Molti studiosi sanno quanto sia difficoltoso viaggiare per i paesi della nostra regione e doversi arrabattare per trovare chi possa aprire chiese perennemente serrate, spesso ricche di capolavori misconosciuti, o districarsi lungo una rete di musei chiusi o quantomeno non regolarmente fruibili. Come si possa puntare, in queste condizioni, sul turismo culturale – che non è solo uno slogan per politicanti ma una delle risorse che questa terra potrebbe pienamente e concretamente sfruttare – è cosa misteriosa! L’intento non è, dunque, quello di fare una rivista infarcita di intellettualismi o piena di ragionamenti asfittici, frutto di una conventicola di monomaniaci dell’arte o con fini di lucro (Dio guardi! Chi fa questo mestiere per mero studio sa che nessuno si è mai arricchito, anzi...) oppure uno specchio di Narciso per chi voglia scrivere con lo scopo di partecipare ad una delle tante premiopoli istituite per appuntarsi medaglie di cartone sul petto. E non è, altresì, una conventio ad excludendum per altri studiosi, ma vuole proporsi come una palestra per i giovani specialisti che magari provengono dalla nostra Università – privi di sbocchi occupazionali e di supporti che gli consentano di percorrere la strada della ricerca – o un modo per far sì che archeologi, architetti o storici dell’arte “di lungo corso” abbiano la possibilità di confrontarsi e di mettersi in discussione. I saggi pubblicati, infatti, non vogliono lanciare proclami e non propongono soluzioni a problemi artistici con verità rivelate, ma possono essere spunti per riflessioni più ampie o punti di partenza per studi futuri, al di là di facili schematismi o di uno sterile gusto dialettico. Il fine ultimo è la sopravvivenza di questa pubblicazione: esorto quindi chi mi legge a proporla e a diffonderla con lo scopo di far conoscere il patrimonio storico-artistico della nostra regione con rigore metodologico e non solo con meri scopi divulgativi.



Anno IV, nn. 7-8, gennaio – dicembre 2011

Editoriale  
                                                  
SULLA VIA DEL RISCATTO

 di Mario Panarello


Afflitta da una congerie di problemi di varia natura che costituiscono il freno per uno sviluppo coerente all’interno di un contesto socio culturale ricco di scambi internazionali sempre più fluido, la Calabria prosegue a rilento, non senza macroscopiche contraddizioni, la via verso il riscatto della propria identità artistica. La scollatura fra l’urgenza di un recupero attento in ogni settore delle arti e l’effettiva attenzione riservata ai beni culturali del nostro territorio da parte di quanti sono chiamati non solo alla tutela, ma ad una coerente valorizzazione del patrimonio, si avverte sempre di più. Sarebbe certamente arduo ricercare le complesse ragioni di una tale disfunzione, aggravata oggi senza dubbio da una crisi economica in relazione alla quale la necessità del recupero materiale e culturale del patrimonio artistico parrebbe non prioritaria. Tuttavia, i problemi che creano gli effettivi vincoli sono e continuano ad essere principalmente endemici ad un paese che ancora stenta a strutturarsi, assorbito da interessi economici oltre ogni ragionevole bisogno, dove è imperante la speculazione e l’indolenza, imbrigliato da conflittualità inutili, alimentate dall’ignoranza e da logiche irrazionali, dove la sensibilità è un valore di pochi, spesso appannaggio di quelli che non contano. Con questa consapevolezza ci accingiamo a pubblicare, con una naturale fatica che giustifica il ritardo considerevole, rispetto ai tempi di stampa previsti, un altro numero doppio della rivista Esperide dedicata alla conoscenza dei beni culturali calabresi, ovviamente vittima delle molteplici dinamiche negative che segna non il nostro territorio, poiché anche quanti se ne occupano non dimostrano un’adesione sincera e anzi preferiscono il silenzio alla produttività, alimentando equivoci, conflitti, critiche sterili in un gioco di adesione ad inutili partiti che sembrano clonare più che le improduttive contrapposizioni della politica attuale, giochi infantili diretti a conservare primati fittizi. Per fortuna la ricerca offre soddisfazioni che sembrano neutralizzare ogni conflitto, soprattutto quando ci si rende conto dell’importanza scientifica della stessa. La rivista ha una vocazione particolare: quella di raccogliere le tante voci sparse nel territorio che con spirito di sacrificio e abnegazione investono energie per fare affiorare la bellezza nascosta. In particolare, un deterrente anche per lo sviluppo di un’autocoscienza estetica proiettata sullo spazio urbano è il forte degrado che investe le nostre architetture storiche. Fortunatamente, c’è chi si prodiga a valorizzare architetture, completamente in rudere, modificate e spesse volte decontestualizzate perché inserite in un tessuto degradato che progressivamente va perdendo la sua identità, oppure manufatti artistici frammentari e pesantemente alterati. Per molti casi solo attraverso l’analisi di alcuni documenti è possibile restituire ai luoghi l’originaria facies, facendone riemergere l’essenza, le ragioni e il significato. L’isolamento di un’opera rispetto alla sua collocazione e alla sua condizione storica sembra essere un comune denominatore di molti centri che hanno perso non soltanto gran parte del patrimonio, ma la documentazione stessa necessaria per ricucire le parti di un tessuto ''sfibrato'' che non rivela più il complesso intreccio che un tempo unificava le manifestazioni artistiche. In questa situazione non certo esaltante il lavoro di recupero da parte di studiosi non necessariamente ''affermati'', ma spinti da un sincera passione, spesso soffocata da un sistema viziato, diventa essenziale per gli obiettivi che la rivista intende perseguire. L’indagine delle diverse manifestazioni artistiche, da quelle più auliche a quelle popolari, rappresenta un fattore di conoscenza di un humus culturale che nel corso della storia si è sedimentato, costituendo il substrato della nostra cultura. Accanto allo studio delle opere di maggiore rilievo appare necessario guardare con attenzione nuova le manifestazioni apparentemente minori che non sempre manifestano una ingenuità espressiva, ma esprimono temi e significati di linguaggi colti, con la consapevolezza che anche un piccolo frammento recuperato è fonte di ricchezza per una realtà così disgregata ma il cui recupero è sicuramente necessario per comprendere meglio anche le dinamiche ''della grande storia''.



Anno V, nn. 9-10, gennaio - dicembre 2012

Editoriale    
                                                   
IN CALABRIA TRA ARTE E FEDE: PROBLEMI DI TUTELA DEI BENI CULTURALI    
      
di Domenico Pisani 


«Le ragnatele| dietro i vetri, le madonne| le ragnatele del Carmine| la ragnatela di Portosalvo| la ragnatela della Quercia». Così recitano alcuni versi tratti dal Canto dei nuovi emigranti (1964) di Franco Costabile, poeta di Sambiase, uno dei più importanti del Novecento calabrese, Rileggendoli sembra di poter toccare con mano l’incuria, l’abbandono in cui versano diverse chiese, sparse per la Calabria, piccoli contenitori di capolavori d’arte misconosciuti. In molti paesi, infatti, dopo il Concilio Vaticano II, gli altari laterali, caduti in disuso, furono in alcuni casi smantellati e in altri dimenticati segnando il loro degrado, Stessa fine fecero gli affreschi, imbiancati a calce, e gli arredi sacri, come le cartagloria, i candelabri, le cornucopie e le lampade votive, spesso realizzate in argento. Nel corso della campagna fotografica e di studio sulle statue lignee serresi, pubblicata in questo numero, non è stato raro imbattersi in opere, che solo qualche anno fa possedevano ancora le loro cromie originali, malamente imbrattate da incompetenti con smalti sintetici. Certo, la spinosa questione del “rinnovo” delle statue lignee andrebbe affrontata in modo chiaro: per culpa in vigilando di più d’uno, e pro bono pacis verso una Chiesa spesso disattenta nei confronti delle problematiche artistiche, improvvisati restauratori hanno avuto agio di ridipingere a smalto, deturpare, violentare le più belle statue lignee della Calabria inficiando spesso ogni possibilità attributiva e seppellendo le firme degli statuari, apposte sulle iscrizioni dedicatorie delle basi, sotto molti strati di colore. La cancellazione della memoria viene così operata sistematicamente, lentamente e inesorabilmente. Vi sono molti esempi del genere: il rinnovo delle statue, degli altari, di settecentesche porte bugnate destinate a legna da ardere e sostituite con opere nuove, è passato come un ciclone distruttivo a causa di un’ansia compulsiva da ammodernamento tra gli applausi di chi gode nel vedere colori brillanti, magari acrilici, spennellati sulle superfici scolpite. Queste considerazioni, purtroppo non sono nuove: si obietta che la casa di Dio non è un museo – o che le istanze della devozione collidono con il rispetto tout court delle opere antiche – ignorando i principi della tutela e della valorizzazione dei beni culturali. E intanto le sculture lignee processionali, che giacciono chiuse in teche rovinate o in nicchie scrostate e impolverate, attendono il pennello innovatore di qualche “dotto” che sposta e distrugge, acquiescente verso chi lo mantiene. Oggi gli scultori e gli intagliatori, in passato definiti con dispregio “santari”, hanno acquisito una dignità tale da essere considerati veri e propri maestri della scultura lignea, i cui esiti sono presi in considerazione da rari nantes della ricerca artistica. Le loro opere devono essere lette, diversamente da altri manufatti, insieme alle oreficerie di corredo e agli aneddoti che ne costituiscono parte integrante. Si prestano ad indagini sociologiche ed antropologiche, raccontano la religiosità popolare e sono un elemento fondamentale delle microstorie dei luoghi. Sono frutto materiale di sacrifici dovuti alle confraternite laicali che per agevolare le pratiche di pietà hanno fatto realizzare nel tempo insegne, attributi iconografici di santi, ma soprattutto imponenti fercoli processionali che, devastati oggi dal porporina, hanno perso l’originale meccatura o, addirittura, la doratura a foglia. La sensibilizzazione nei confronti di un patrimonio così importante è uno dei compiti di questa rivista che si propone di far conoscere i beni culturali regionali per favorirne la tutela. Solo con questa finalità, che dovrebbe accomunare tutti, senza preclusione alcuna, la divulgazione del patrimonio artistico permette di acquisire la consapevolezza delle radici storiche della Calabria, a partire dalla cultura materiale delle classi subalterne. "Esperide", infatti, è nata come un tentativo, frutto della sinergia di archeologi, di storici dell’arte, di restauratori ma anche di appassionati e cultori della materia, di ragionare su ciò che questa regione possiede, in maniera libera senza condizionamento alcuno, men che mai politico, considerato che non gode di finanziamenti pubblici, per tramandarlo a chi vorrà fruirlo, nella sua interezza, ricordando sempre che tempus edax, homo edacior.



Anni VI-VII, nn. 11 - 14, 2013-2014

Editoriale


MATTIA PRETI E LA CALABRIA

di Mario Panarello


Com’è noto a molti, nel percorso della storia dell’arte moderna calabrese, è imprescindibile confrontarsi con la figura di Mattia Preti, un artista cosmopolita che si proiettò oltre i limiti principali provinciali, verso dimensioni e tensioni artistiche di ben altra portata rispetto a quelle dimesse che il territorio visse nel Seicento. E’ stato spesso sottolineato come il legame particolare con la committenza e con la sua città natale abbia determinato l’arrivo dei numerosi dipinti di Taverna che soprattutto nel tempo diventarono un riferimento indispensabili per i pittori del territorio, mentre oggi rappresentano per gli storici dell’arte una delle vette più elevate per qualità e complessità della tradizione storiografica regionale. Esperide, purtroppo in ritardo con le uscite delle annate precedenti, aveva programmato da tempo di celebrare il quarto centenario della nascita dell’artista, contraddistinto da diverse iniziative culturali, con un volume speciale che accorpasse due anni e contenesse quattro numeri, nei quali raccogliere saggi diversi su problematiche storico-artistiche legate alla figura del pittore di Taverna. I contributi, coerenti con lo spirito della rivista, affrontano tematiche connesse con la regione e al contesto meridionale, trattando di argomenti di più ampia portata, come quello sviluppato da Miguel Hermoso Cuesta, che impernia la sua analisi sull’attività di Mattia Preti e Luca Giordano intorno al 1656, quando i due artisti si confrontarono a Napoli, o quello di Renato Ruotolo che ripercorre le vicende dei perduti affreschi della cupola della chiesa napoletana di San Domenico Soriano, da sempre legata ai calabresi per l’importanza del culto dell’immagine acheropita del Santo. I restanti contributi puntano l’attenzione su questioni critiche, storiche e storico-artistiche e rivolte al territorio regionale, ma non per questo limitati anzi il taglio prescelto ha imposto di concentrare l’attenzione su argomentazioni mai prima affrontate e su diverse altre ancora da sviluppare che, a nostro avviso, hanno arricchito molto il panorama critico degli studi pretiani, apportando novità di rilievo anche lì dove i temi non riguardano strettamente il pittore di Taverna, ma in vario modo collegati alle premesse della formazioni o all’eredità da lui trasmessa. In molti casi è stata una sfida la scelta di argomenti particolari che, nonostante alcune difficoltà, hanno messo in luce diversi aspetti spesse volte originali. Inoltre i differenti tagli critici e metodologici con i quali le tematiche sono state affrontate hanno interessato opere e argomenti mai prima trattati che, sebbene siano suscettibili di approfondimenti, possono rappresentare indubbiamente un punto di riferimento per ricerche più ampie. Dunque, non si è rivelato un limite il concentrarsi su tematiche strettamente regionali, ma anzi, attraverso la difficile ricomposizione di trame spezzate dal tempo, la ricerca ha portato alla formulazione di contributi nuovi. La presenza di saggi di uno stesso autore dipende dal fatto che, come già rimarcato, questo numero speciale ne accorpa ben quattro semestrali, a questo si aggiunga che l’iniziativa, programmata già da diverso tempo, ha incontrato il favore di molti i quali però in fase di gestazione dell’opera, per varie ragioni, hanno declinato l’invito. Da qui la difficoltà di reperire articoli specifici destinati alle diverse sezioni della rivista, mentre alcune tematiche identificate dal curatore, necessarie di significativi sviluppi, sono rimaste eluse per la mancata disponibilità di studiosi desiderosi di affrontare nuove avventure di ricerca. Tra i contributi che sono partiti dall’analisi di tematiche più strettamente connesse alla regione vi è quello di Dario Puntieri che ha analizzato le suggestioni critiche affioranti da uno scritto giovanile di Alfonso Frangipane dedicato a Taverna e al suo patrimonio artistico, ancora oggi incredibilmente attuale. Quello redatto a quattro mani dal sottoscritto e Domenico Pisani mira a raccogliere le diverse fonti che tra Settecento e Novecento hanno interessato l’attività del pittore di Taverna, nonché la sua fama attraverso i ritratti diffusi principalmente nel Regno napoletano. Il corposo scritto di Umberto Ferrari fornisce una nuova visione dei fatti storici che hanno contraddistinto Taverna tra Cinque e Seicento attraverso il supporto di molti documenti inediti. Anche il contributo di Bruno Alessio Bedini fornisce una nuova panoramica sui cavalieri gerosolimitani calabresi al tempo di Mattia Preti. Un saggio sul culto di San Giovanni in Calabria e sulla straordinaria diffusione di opere cinquecentesche in marmo e di dipinti, redatto da chi scrive, indaga anche la diffusione della devozione attraverso il suddetto ordine cavalleresco. Domenico Pisani è invece l’autore di uno scritto che analizza la committenza e le vicende legate ad alcuni importanti dipinti pretiani che vanno oltre il corpus cospicuo delle tele tavernesi. Il contributo del giovane Antonio Cosentino affronta con una capillare analisi un tema inedito; il collezionismo legato alle opere pretiane presso importanti famiglie collegate alla Calabria e vissute nelle suntuose residenze sparse nei centri del regno napoletano. Ancora Pisani firma un breve scritto nel quale presenta un’inedita tela di Preti custodita presso una collezione catanzarese. Un nuovo taglio di lettura , in chiave iconologica, del celebre dipinto del Cristo fulminante è affrontata da chi scrive attraverso una complessa analisi che mette in luce alcuni velati significati dell’opera. Lo stesso curatore, a quattro mani con Dario Puntieri, analizza il dipinto della Madonna del Rosario mettendo in luce le implicazioni iconografiche connesse all’ambientazione architettonica , mentre nel saggio successivo affronta la tematica delle copie prevalentemente settecentesche di dipinti pretiani esistenti nella regione. Giovanni Autilitano è l’autore di un breve saggio su un dipinto catanzarese di scuola pretiana dove evidenzia la dipendenza del modello iconografico da dipinti celebri dell’artista e del suo ambito. Ancora su un singolo dipinto di Preti disperso, e sulle vicende ottocentesche, concentra l’attenzione Giuseppe Valentino grazie all’acquisizione di nuovi darti archivistici. Il successivo saggio a cura dell’autore di questo editoriale propone un excursus sulla pittura in Calabria al tempo di Mattia Preti, restituendo nuovi elementi utili per rileggere la formazione pretiana e la tarda produzione artistica in Calabria, connessa al grande artefice. Pisani è ancora l’autore di un originale saggio sull’iconografia pretiana del Novecento celebrata attraverso bozzetti, sculture a tutto tondo e medaglie onorarie. Chiude la successione dei saggi una breve scheda di restauro a cura di Vito Sarubo sui lavori da poco terminati della confraternita del Santissimo Salvatore annessa alla chiesa di Santa Barbara a Taverna. Lunga la sezione delle recensioni dedicata prevalentemente a pubblicazioni connesse alla figura dei Preti o a studi strettamente correlati pubblicati non solo sino al 2014, ma anche oltre per consentire agli studiosi di avere un panorama il più ampio possibile relativo agli studi sull’artista. Per il presente numero, proprio per le sue peculiarità, è stato predisposto uno speciale gruppo di consulenti scientifici diverso dal consueto comitato comparso nelle precedenti annate. Di esso faceva parte Giorgio Leone purtroppo scomparso alla fine dello scorso anno il quale, come è noto a tutti, ha speso molte energie per la conoscenza del patrimonio artistico calabrese e della figura di Mattia Preti. Scomparso pure Carlo Longo, esimio studioso dell’ordine domenicano, uno dei consulenti del comitato scientifico della rivista che sin dal suo nascere ne salutò con entusiasmo la fondazione.



Anno VIII, nn. 15 - 16, 2015

Editoriale

PER PICCOLI TASSELLI: ALLA SCOPERTA DELL'IDENTITA' ARTISTICA CALABRESE


di Mario Panarello


Il luogo comune che predomina nella collettività calabrese è quello di una regione povera, quasi carente di beni artistici di rilievo. Tale pensiero ha le sue radici in una molteplicità di fattori; da un lato l’oggettiva perdita e “frammentazione” del patrimonio ha originato un disorientante vuoto identitario, che stenta ad essere recuperato a causa di un distacco troppo lungo e sofferto fatto di traumi collettivi storicizzati i quali hanno lasciato segni indelebili nella cultura e nella mentalità più diffusa: dai terremoti ai grandi stravolgimenti politici, alle allarmanti situazioni economiche che anche nei loro risvolti positivi hanno segnato non sempre in maniera edificante la storia del territorio. La conseguenza è stata il non riconoscimento da parte della collettività della valenza storica del bene sopravvissuto, e al contrario ha determinato il consolidarsi di alcuni distorti luoghi comuni, difficili da scardinare. Tale distacco non può che essere colmato con una lenta e sofferta riconquista di figure di artefici, di opere, di testimonianze e soprattutto di nessi con le articolate situazioni artistiche d'Italia e del rapporto con gli altri centri del Mediterraneo; relazioni e nessi che porterebbero alla ribalta le testimonianze superstiti, non come brani di una microstoria circoscritta, ma come elementi di una realtà più complessa, poiché incanalate in quel flusso di scambi culturali che hanno interessato l’intera penisola, con esiti e risvolti sempre differenti, non privi di sorprese anche lì dove hanno prevalso aspetti più artigianali e meno colti. Pertanto il recupero di piccoli tasselli di storia dell’arte attraverso vere e proprie “conquiste” documentarie, ritrovamenti archeologici, analisi critiche (che tentano di ricucire le istanze culturali e stilistiche in merito alla genesi dei manufatti, nonché la riscoperta di nessi linguistici), possono fornire spunti, aprire inaspettati campi di indagine su opere e personalità apparentemente sparute, che potrebbero apparire decontestualizzate e prive di senso, ma che in molti casi hanno collegamenti con i principali centri di elaborazione artistica. Da un lato è necessario dunque il recupero o la riconsiderazione di brani documentari, dall’altra il rinvenimento critico delle testimonianze materiali della storia, all’interno della storia stessa e non al di fuori di essa. Purtroppo tutto ciò è aggravato da una condizione di studio non sempre ideale, svolto su un terreno impervio e scivoloso; non dimenticando che non è attraverso verità assolute che si recuperano i brani della storia, ma mediante tentativi che si basano non solo sui dati certi, ma soprattutto sugli aspetti linguistici e semantici delle opere. Il tentativo di questa rivista vuole proprio andare verso questa direzione perseguendo l’obiettivo principale di far conoscere le opere sparse nel nostro non facile territorio, al fine di contribuire al consolidamento di una consapevolezza collettiva, spesse volte distratta e distaccata. Da questo nuovo numero la rivista si fregia di un nuovo gruppo scientifico di riferimento composto da un comitato direttivo che comprende nomi di rilievo del panorama culturale artistico italiano, da un rinnovato comitato scientifico che attende alla lettura e alla revisione dei contributi in base alle specifiche competenze, rafforzato dalla presenza di referees segreti e coadiuvato da un folto gruppo di lavoro redazionale. Inoltre i contributi saranno accompagnati da abstract in lingua inglese, mentre una riveduta veste grafica, con una più attenta corrispondenza tra il testo, le note e lì dove possibile anche con le immagini, caratterizza questo numero.



Anno IX, nn. 17 - 18, 2016

Editoriale

di Domenico Pisani


Poi che il grande pittor Preti Mattia
dal nano Cortis venne arcisfregiato
non volle più restare in San Giovanni
dove dipinse assai per anni ed anni.
Che ci stava a far lì quel Calabrese
presso a la porta della sacrestia?
A guardar quei suoi santi ad ogni mese
crescer di grasso per l’idropesìa?
Dalla sua tomba uscì, tutto adirato;
e nudo sì com’era è andato via…
in barba ai preti ed alla polizia!
Or che giova saper dov’egli sia?
Cerchiamo il Cortis dal cervello corto
almen per impiccarlo dopo morto.



Anche se non si insisterà mai abbastanza sui problemi legati alla tutela e alla conservazione del patrimonio culturale calabrese e sulle colpe in vigilando degli enti preposti alla sua salvaguardia, per evitare di stilare un cahier de doléances che rischia di diventare un motivo ricorrente e privo di effetti, è necessario porre l’accento sulla prevenzione dei rischi legati al danneggiamento o alla perdita di testimonianze del passato: scomodando il Signor de La Palisse, chi entra a contatto con oggetti d’arte deve essere deputato a farlo, senza improvvisazioni. Purtroppo così non è in molte chiese e in molti musei di questa regione, dove incultura e indifferenza verso il patrimonio materiale sussistono anche a causa dalla mancata applicazione delle leggi. Finché ci saranno deroghe nei confronti di “restauri” non autorizzati di oggetti liturgici, dipinti e sculture e non si inaspriranno le pene per i trasgressori, la distruzione del patrimonio sarà generalmente considerata un peccato veniale e verrà operata inesorabilmente. Ciò non esclude la vigilanza sui restauratori “accreditati”, non certo esenti da errori: il sopracitato nano Cortis, protagonista di una poesiola che circolava a Malta dopo la conclusione dei primi restauri ai dipinti pretiani nella cattedrale di San Giovanni, è sempre dietro l’angolo. Come prevenire i danni al patrimonio culturale? Senza cadere nel banale e nel retorico, l’insegnamento della Storia dell’Arte nelle scuole potrebbe avere il suo ruolo se operato con rigore e con competenza. Lasciando da parte i problemi legati all’istruzione, noti a tutti, è necessario porre in evidenza che l’insegnamento di questa materia è una delle grandi questioni culturali di questo Paese, una questione valoriale e identitaria ineludibile. Esiste una evidente asimmetria tra l’interesse del pubblico che insiste agli ingressi dei principali musei italiani e quello suscitato dallo studio della storia dell’arte nelle scuole, perché la disattenzione nei confronti di questa materia è purtroppo politicamente trasversale e nessuno fino ad oggi ha avuto la necessaria lucidità per capire che la tutela e la comprensione del patrimonio partono dalla didattica. Questa materia, che ha una vocazione laboratoriale, non può essere insegnata in maniera obsoleta soltanto con l’uso dei libri di testo, ma necessita della conoscenza di siti internet, della possibilità di ingrandire i dettagli, di studi efficaci che facciano presa sull’attenzione degli allievi, incentivando l’uso delle nuove tecnologie e non reprimendolo a vantaggio di metodi ottocenteschi, da libro Cuore. Ma tant’è: in alcune scuole il numero delle lavagne d’ardesia supera quello delle moderne Lim che, quando sono presenti, vengono confinate in aule inidonee e non sempre facilmente fruibili. Finché non si comprenderà la valenza delle chiavi di lettura del patrimonio culturale si condannerà la storia dell’arte alla marginalità degli studi, creando un vulnus nel bagaglio culturale degli studenti. Se si continuerà, quasi con fastidio, a collocarla all’ultima ora di lezione, si trasmetterà agli studenti quel senso di dequalificazione che porta all’indifferenza. Eppure questa materia, anche se a volte viene dipinta come elitaria, un mistero per pochi iniziati, si può porre in un rapporto dialettico con letteratura, religione, storia e filosofia ed è certamente, al di là degli slogan, la seconda lingua degli italiani, una lingua che contribuisce alla formazione dell’identità nazionale e che permette di appropriarsi di codici interpretativi per la corretta analisi delle opere d’arte. Ecco perché dovrebbe essere appannaggio di docenti specialisti della disciplina. È solo l’educazione alla bellezza e al buon gusto che può limitare quei danni causati dall’incuria che inevitabilmente portano al degrado. I beni architettonici, ad esempio, vengono spesso considerati un inutile fardello o un ostacolo allo svecchiamento, per un malinteso senso del progresso e della modernizzazione, che preoccupa e indigna. I restauri dei palazzi storici di molti paesi calabresi appaiono fuori controllo, a causa dell’uso di colori che collidono con il buon gusto, per non parlare di vetrine da negozio in alluminio o di insegne al neon che insistono su strutture che meriterebbero ben altra considerazione. Una politica miope, indifferente a tutto ciò che non si traduce in voti e clientele, ha vilipeso i beni artistici di questa terra percependoli come “minori”, più appannaggio degli antropologi che degli storici dell’arte, e non come parte integrante di un territorio da tutelare o uno stimolo alla creatività del presente per la costruzione del futuro. Ancora però ci si nasconde dietro l’ordine di priorità: i problemi della Calabria sono tanti ma finche non si comprenderà che la tutela della cultura è destinata a concorrere all’elaborazione di un metodo utile a formare e rafforzare l’identità non ci sarà mai un completo riscatto dalle logiche che tollerano scheletri di cemento armato destinati a stuprare il paesaggio, simboli del “non finito” calabrese.



Anno X, nn. 19 - 20, 2017

Editoriale


A SUD DEL SUD

di Mario Panarello

Con questo numero la rivista compie dieci anni di vita trascorsi a sostenere un’iniziativa fortemente voluta per la pubblicazione di contributi scientifici. All’inizio di questa avventura l’idea era nata essenzialmente dal fatto che mancasse una sede scientifica dedicata ai beni culturali, nella quale riversare le ricerche condotte con un certo rigore sui territori calabresi; iniziativa che si è rivelata ancora oggi di estrema utilità per la conoscenza e la valorizzazione del patrimonio e che ha ottenuto il riconoscimento da parte dell’ANVUR bell’elenco delle riviste scientifiche nazionali. Un patrimonio che rispetto a quello di tante altre regioni italiane ha sofferto nel corso del tempo incessanti vicissitudini; in molti casi perduto, frammentario, scomparso, ignorato, oppure ancora peggio svuotato o banalizzato dal suo contenuto, per giungere ad essere strumentalizzato, usato e poi opportunamente accantonato, spesso sfruttato come gloria personale e non come valore di una collettività, per la sua importanza storica, determinante per l’identità dei luoghi. Rispetto a qualche decennio fa, l’incremento degli studi e delle ricerche ha contribuito in modo decisivo a scoprire e a porre in una nuova luce testimonianze artistiche prima completamente ignorate, concorrendo spesso a restituire una storia territoriale di ben altro spessore rispetto agli ambiti alla quale è da molti relegata. Certamente la ricerca deve ancora avanzare, e siamo sempre più convinti che non sia solo una questione di metodo, ma di conoscenza profonda dei fenomeni che non possono essere compresi attraverso poche “battute” di interesse. Inoltre, sempre più ci si rende conto che taluni processi artistici, taluni fenomeni della committenza, se analizzati a fondo e studiati contestualmente non solo a quanto esiste, ma a quanto esisteva, non possono più essere relegati nei contesti della microstoria, ma acquistano una tale importanza che va oltre i limiti localistici, rapportandosi ad esperienze e a fenomeni di più ampio raggio, determinanti talvolta per spiegare alcuni aspetti della macrostoria; così non potremmo chiarire gli sviluppi ben oltre i confini maggiormente riconosciuti del Rinascimento fiorentino senza contemplare l’attività di Antonello Gagini o quelli del Rinascimento romano senza includere la breve parentesi calabrese di Cesare Quaranta, solo per rimanere nel campo della scultura. Ed ancora, poco oltre un secolo dopo l’attività di questi artefici, l’esperienza dei cantieri artistici del monastero di Serra San Bruno e del santuario di Soriano Calabro, ad esempio, attesta, mediante linee di sviluppo diverse, l’affermazione delle barocco sia napoletano che romano, attraverso la realizzazione di opere che pur essendo importate sono radicate nella cultura e nella spiritualità del tempo e dei luoghi, tanto da interagire con le grandi sperimentazioni delle capitali. Ma intanto nel campo degli studi emergono altre questioni legate alla condizione di subalternità della Calabria, non soltanto sul piano storico, ma anche su quello storiografico, infatti spesso ci si imbatte ancora, nonostante i tanti propositi giunti anche da autorevoli voci, in un’idea distorta che gli ambiti provinciali debbano essere relegati ad una dimensione sempre o comunque subordinata ai grandi centri di produzione artistica, ciò potrebbe essere anche accettabile se consideriamo il ruolo egemone nella formazione e nella produzione dell’arte di taluni centri, ma spesso l’attenzione si è maggiormente concentrata sui rapporti tra centro e periferia, trascurando gli sviluppi autoctoni derivati dalle elaborazioni delle grandi espressioni. Inoltre ciò ha portando ad una maggiore marginalizzazione dei fenomeni artistici e delle stesse personalità attive nelle provincie, le quali sovente erano dotate di un carattere autonomo non privo di originalità; un caso emblematico è possibile rilevarlo nella successione di architetture che ruotano attorno alle committenze dei Lamberti nel territorio di Stilo, che trovano l’apice in una manifestazione quasi unica nella regione come villa Caristo, oppure nella raffinata attività dell’architetto Biagio Scaramuzzino che ha condotto l’architettura settecentesca calabrese a livelli qualitativamente alti, attirando talvolta anche l’attenzione di studiosi autorevoli, ma è possibile considerare anche altri casi come l’attività di alcuni pittori e decoratori del Settecento, che seppure altalenante, ha visto momenti di originalità creativa nel novero di un linguaggio rocaille che nel contesto territoriale calabrese ha conosciuto sviluppi ed esiti interessanti; menzioniamo in tal senso le sperimentazioni linguistiche ed espressive di Francesco Saverio Mergolo o di Francesco Colelli. È chiaro che per fare ciò è necessario indagare i fenomeni artistici e le manifestazioni nelle loro totalità, per poi cogliere gli sviluppi e le produzioni migliori. Crediamo quindi che tale processo critico vada compiuto dall’interno, pur mostrandosi bene ancorati ad ambiti più vasti che sono i contesti culturali egemoni del Mediterraneo. Comunque sia, il fenomeno più deprecabile è quello del pregiudizio che tentiamo di superare attraverso una ricerca attenta e scrupolosa, la quale propone ma non si impone, né con superiorità né con prepotenza, ma spesso è ignorata più volontariamente che involontariamente. Si profila infatti un problema duplice, per così dire, il primo messo a fuoco decenni fa da Giovanni Previtali con il concetto di “questione meridionale”, inteso come pregiudizio di studiosi estranei alle complesse dinamiche della cultura artistica del sud Italia, il secondo insito nell’idea distorta che esista un sud del sud, nella quale si annidano atteggiamenti diffidenti, insignificanti contrapposizioni, vuote egemonie, negati confronti, vero male di una realtà oramai cristallizzata per fortuna appurabile da studiosi imparziali che un giorno riscontreranno quanto siano ignorati taluni studi; studi che nascono non dall’improvvisazione, ma da ricerche attente, da pluriennali riflessioni, dall’analisi reiterata dei manufatti e dei fenomeni artistici. Studi che certamente possono anche sfuggire nel multiforme universo della ricerca, ma non possono essere volutamente ignorati, certamente non a discapito di chi li fa, ma a sfavore di chi li ignora.



Anno XI, nn. 21-22, 2018

Editoriale


STRATEGIA DELLA (DIS)ATTENZIONE AI BENI CULTURALI

di Mario Panarello, Dario Puntieri

È oramai un topos il tema della inadeguata conservazione dei beni culturali in Calabria, e non per indulgere alla pratica del lamento, ma a causa del ciclico ripetersi di situazioni paradossali che suggeriscono serie riflessioni. La consueta riproposizione di problemi da tempo insoluti trova causa principalmente in una politica regionale insufficiente, estranea alla cultura del territorio ed ignara delle coordinate fondamentali della storia e dell’arte calabrese. Di conseguenza le figure preposte alla tutela e alla salvaguardia dei beni sono spesso inconsistenti e, nei casi in cui siano animate quantomeno da buone intenzioni, tanto ostacolate da inficiare ogni lavoro costruttivo. È palpabile inoltre la distanza fra gli studi prodotti dalle figure professionali e gli operatori del settore culturale e turistico, tanto da far rimanere le competenze relegate in ambiti ristretti (nel migliore dei casi) senza arrivare a quanti dovrebbero beneficiarne. L’offerta turistica, inoltre, priva di strategie, viene affidata alla buona volontà di pochi, quando un suo rilancio potrebbe essere importante e significativo per i beni culturali anche laddove già esiste una “strategia dell’attenzione” per far nascere un’auspicabile rete che possa comunicare, a quanti ne vogliano usufruire, il valore intrinseco delle opere e non solo quello esteriore, spesso deturpato e martoriato dalle ingiurie del tempo. Siamo sempre più convinti, soprattutto in mancanza di manifestazioni eclatanti e immediatamente riconoscibili, che i beni culturali in Calabria abbiano bisogno di studi attenti che ne possano spiegare le dinamiche storiche e le prerogative, definendone il carattere e l’unicità: le opere d’arte, infatti, non ci dichiarano esplicitamente il loro contenuto né il loro background ma hanno bisogno di una puntuale esegesi critica. Rimane ancora aperto il problema dell’istruzione storico-artistica a vari livelli. Infatti si avverte una profonda scollatura tra gli studi teorici e la storia dei luoghi, una visione questa, opposta alla moderna museomania che spesso genera luoghi grigi, spesso non adeguatamente allestiti, e dotati di opere decontestualizzate, contenitori che difficilmente riescono a raccontare e a spiegare il contesto per riscuotere il giusto interesse. Tutto questo è aggravato dal fatto che musei e chiese non sono regolarmente fruibili anche per la mancanza di una strategia e di un’organizzazione. Ancora purtroppo la figura dello storico dell’arte ha difficoltà a trovare una giusta collocazione professionale, ed è spesso soggetta a dinamiche distorte che promuovono come in un gioco perverso persone inadeguate ma ben sostenute, che spesso non hanno la giusta lungimiranza per risollevare le sorti di un settore fondamentale per lo sviluppo di questa regione sempre più alla deriva. Si pensi che qualche anno fa un uomo delle istituzioni ebbe a dire che non avrebbe promosso l’unica rivista esistente sui beni culturali e sulla storia dell’arte in Calabria a causa dell’esiguità dei suoi lettori. È singolare che difronte ad una proposta culturale di spessore molti si dicono pronti a sostenerla ma, quando si arriva a concretizzare il progetto, inesistenti vizi di forma si frappongono in maniera pretestuosa perché si preferiscono sagre e feste rionali o manifestazioni che, magari valide, sono inficiate da familismo amorale o da semplici clientele. È logica conseguenza, a questo punto, che di fronte ad emergenze storico-architettoniche di rilevanza considerevole si auspichi addirittura il crollo, come accade drammaticamente per il palazzo Bisogni di Briatico, o che si smantelli nell’indifferenza generale un palazzo vincolato, come sta accadendo a Vibo Valentia agli interni del palazzo di Francia, decorati in occasione della visita in Calabria di Gioacchino Murat. Oppure ancora si potrebbe menzionare, tra tanti altri, il caso delle statuine di ambito sanmartiniano custodite nella chiesa matrice di Montauro, un tempo dorate a mercurio ed oggi inspiegabilmente rivitalizzate da un bagno galvanico. 
A partire da questo numero Esperide si arricchisce di un ulteriore componente internazionale del comitato scientifico, il prof. Rafael López Guzmán, cattedratico dell'Università di Granada (Spagna), in linea col nuovo più ampio respiro meridionale e mediterraneo della nostra rivista. Allo stesso tempo prende forma il nostro nuovo sito internet, strumento indispensabile per una maggiore diffusione delle nostre ricerche.



Anno XII, nn. 23-24, 2019

Editoriale


DERIVE (A)CRITICHE E NECESSITÀ CRITICHE

di Francesco De Nicolo, Stefano Seta

Tra gli aspetti che in tempi più recenti hanno marcato positivamente il campo della Storia dell’Arte dell’Italia Meridionale andrà registrato il considerevole sviluppo delle ricerche su alcune tematiche che fino a qualche decennio fa versavano in uno stato di generale disattenzione critica, venendo considerate, infatti, sottobranche della disciplina prive di “dignità” storiografica. Ritrovamenti documentari, specifiche disamine su opere, contesti e personalità che emergono da un quadro sempre più variegato e multiforme, hanno contribuito alla riabilitazione di argomenti per i quali la spregiativa etichetta “arti minori” si è rivelata sempre più inappropriata perché banalizzante e riduttiva rispetto a fermenti e fenomeni che furono, viceversa, assai complessi e nei quali si raggiunsero anche vertici di assoluta qualità. Basta sfogliare le pagine delle principali riviste scientifiche ed i cataloghi delle mostre promosse in questi decenni per notare il progressivo incremento dei contributi incentrati, per esempio, su marmi decorativi, su argenti e sulla scultura lignea; crescita alla quale potrebbe anche aver contribuito una sempre maggiore internazionalizzazione degli studi laddove in alcuni Paesi, si pensi alla Spagna in riferimento alla scultura in legno, vi è una tradizione di studi molto più radicata in determinati ambiti della Storia dell’Arte. Accanto al significativo progresso compiuto sul piano della conoscenza, allo studioso attento, tuttavia, non può sfuggire la percezione di alcune problematiche di carattere metodologico  sulle quali risulta opportuna una riflessione in relazione alle finalità stesse della nostra disciplina. Innanzitutto risulta sempre molto concreto il problema della scarsezza, o totale assenza, di documentazione archivistica che aiuti lo storico dell’arte a ricostruire la storia del manufatto oggetto del suo studio. Davanti a questa problematica, che in alcuni casi è stata di per sé ragione sufficiente per indurre alcuni studiosi a desistere dal trattare un determinato argomento, riteniamo che continui ad essere di estrema attualità e validità la riflessione che Oreste Ferrari espresse nel catalogo della storica mostra Civiltà del Seicento a Napoli (1984). Il compianto studioso, in riferimento alla penuria di documenti sulla scultura napoletana del Seicento, osservava che «la via da imboccare per risolvere i problemi ancora aperti e per addivenire ad una quanto più completa conoscenza della scultura secentesca a Napoli non potrà esser tracciata sulla fatalistica attesa del fortuito ritrovamento della carta d’archivio risolutiva, ma dovrà principalmente essere [...] la via del più intensivo esercizio degli strumenti di lettura critica delle opere». Dunque la lettura critica, praticata con gli strumenti propri della Storia dell’Arte, quali l’analisi stilistica, quella iconografica ed iconologica e, soprattutto, la contestualizzazione storica e culturale nei vari ambiti geografici di produzione, risulta indispensabile per una più completa e corretta interpretazione delle opere e degli artisti. Il dibattito internazionale - si pensi in particolar modo alle considerazioni formulate da Hans Belting in La fine della Storia dell’Arte o la libertà dell’arte - ha più volte evidenziato, peraltro, la necessità di ricusare qualsiasi approccio fondato su teorie specialistiche che sezionino l’opera d’arte in diversi aspetti e non tengano conto in prima istanza dell’importanza del testo figurativo, ossia della “documentazione oggettuale” costituita dall’opera stessa. A ciò consegue la necessità che lo studio dell’opera d’arte non si esaurisca al solo processo attributivo, con la pur utile individuazione di «tracce e i sintomi» che rivelando la mano dell’artista consentino di ricostruire un contesto di opere somiglianti e quindi in rapporto tra loro, ma sia articolato in maniera più complessa e critica. Ci riferiamo, solo per fare un paio di esempi, alla considerazione di una serie di problematiche che riguardano gli sviluppi stilistici presenti all’interno del corpus di opere di un artefice o alla capacità dello stesso di interpretare le tematiche culturali maturate in seno alla società di appartenenza. E se stiamo ribadendo tale necessità, che ad alcuni potrà sembrare ovvia, è perché sempre più spesso assistiamo, ahinoi, alla proliferazione di scritti acritici, di dubbia qualità scientifica, che esauriscono, anzi sminuiscono, il nobile compito di ricerca storico-artistica ad una frenetica ed ossessiva elencazione di opere e nomi, somiglianti più a stucchevoli rubriche telefoniche che a complessi studi di Storia dell’Arte, la cui unica finalità risulta essere la malcelata e vanagloriosa ricerca dell’inedito a “tutti i costi”. Non possiamo che auspicare, pertanto, che, dinanzi alle derive di cui qui abbiamo detto, la rivista Esperide continui a svolgere il suo ruolo di garanzia di qualità negli studi della nostra disciplina.   



Anno XIII, nn. 25-26, 2020

Editoriale

LA SPERANZA

di Roberto Spadea

Uno dei più illuminati Maestri di storia antica italiani, quale fu Giovanni Pugliese Carratelli, nel discorso (oggi si deve dire “lectio magistralis”), tenuto a Napoli nel gennaio 1992, per l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Istituto di Studi Filosofici, rilevava la drammaticità di quel tempo per la storia del Paese (si riferiva a Tangentopoli, allo stragismo mafioso, al crollo delle cortine di ferro) ed aggiungeva che “proprio nelle occasioni in cui sembra difficile alimentare la speranza si avverte nella profondità dello spirito una nuova fiducia nelle forze ideali”. A riprova della sua affermazione richiamava l’immagine dell’Atene prostrata dalle guerre del Peloponneso, in cui si erano succeduti uno storico come Tucidide, un maestro di vita come Socrate e un filosofo come Platone. La resistenza - concludeva Pugliese - viene dall’energia interiore mossa dalla memoria perenne della propria storia e della propria tradizione culturale. Queste parole mi sono state davanti ripensando ancora una volta ai valori della cultura e della ricerca, valori sempre di più messi da parte nel Paese, nella Regione, dalla politica nazionale e da quella locale. Ed anche quando si sia trattato di dare mano a radicali riforme degli apparati e delle istituzioni fondamentali per la formazione e per il civile progresso, si è data prova di non essere capaci di dare vita a nuovi indirizzi, ritoccando modelli collaudati sui quali si poteva intervenire in modo avveduto, senza attingere, recepire e copiare in modo quasi passivo quanto è stato fatto o si fa in altri paesi, in altre realtà che fanno capo a tradizioni, organizzazioni e strutture diverse, senza valutare il peso negativo delle ricadute, come è avvenuto ed avviene (penso con brivido all’utilizzo della lingua straniera in ambito umanistico).
La mancanza di cultura, collegata alla perdita della memoria storica, del rapporto tra passato vicino e lontano e della curiosità per fatti e luoghi è impressionante soprattutto nei giovani. A ciò concorre la “cultura mediatica” che vede la maggior parte dei giovani chini sui propri smartphones, condizionati dai messaggi mediatici che passano e convergono a far smarrire il senso della storia a vantaggio di immagini e filmati vuoti e colorati, in cui la ricerca dell’obiettività cede alla ricerca dell’effetto ad ogni costo. Per questo ricordo quando una mia amica che insegnava in una III liceo scientifico mi invitò a illustrare un importante sito archeologico della Calabria.
Al termine del breve intervento chiesi ai ragazzi quale curiosità, quale interesse, quali stimoli avesse prodotto quel luogo. Non ottenni risposta, ma seppi dopo dalla mia amica che più di una volta gli smartphones erano stati messi da parte e qualche timido interesse si era risvegliato nei giovani quando erano venuti a contatto delle rovine. Con ciò si mette in evidenza la perdita del contatto diretto con il territorio, con il paesaggio, con l’orizzonte che abbiamo davanti, perché, incalzati da ritmi vorticosi e stressanti, compiamo nella maggior parte dei casi “autoviaggi” (la definizione è del grande geografo Giuseppe Isnardi, della fine degli anni Cinquanta) che ci fanno perdere l’orizzonte e, peggio ancora, forniscono un angolo distorto di visuale che non permette di cogliere gli elementi che quel paesaggio e quelle valenze storiche costituiscono.
Da aggiungere, infine, che la crescita vertiginosa dell’urbanizzazione, avvenuta in modo selvaggio e micidiale in questi ultimi tempi, non agevola la cultura del paesaggio e la sua gestione. Non è un caso che essa si perda, soprattutto nei grandi centri abitati. Per questo quadro desolato valgono ancora le parole di Pugliese Carratelli, quando parlava di speranza e fiducia nelle forze ideali che scaturiscono dallo studio rinnovato di fatti, eventi, uomini, cose, inseriti in determinate temperie storiche, ricordando che lo studio e la ricerca, aiutati anche da nuove tecnologie, non sono soggetti a radicali mutazioni.
Allora benvenuto questo fascicolo, che diventa un esempio di come studio e aggiornamento del metodo possano aiutare la ricerca, partendo dall’analisi, elaborando ipotesi e conclusioni, aggiungendo un tassello o più tasselli alla ricostruzione della verità storica.



Anno XIV, nn. 27-28, 2021

Editoriale 

Oltre la conoscenza: ricerca come scelta etica 

di Mario Panarello 

Il lavoro sempre faticoso di collazione e redazione di ogni numero del presente periodico, che contrassegna nondimeno le varie fasi di ricerca del materiale di ogni singolo caso di studio considerato, non può giustificarsi solo ed esclusivamente come un lavoro finalizzato al puro progresso della conoscenza: ciò implicherebbe inevitabilmente dare luogo ad un’operazione culturale settoriale e puramente campanilistica o se vogliamo, come molti la definiscono in modo spregiativo, localistica; invero l’apparente settorialità o marginalità di Esperide che pure mira a confrontarsi (attraverso una sezione intitolata Confronti) con altri contesti culturali, accogliendo contributi esterni rispetto agli studi riguardanti problematiche regionali e a contestualizzare alcuni episodi artistici nel più ampio fenomeno della dinamica della circolazione delle opere d’arte, degli artisti e dei committenti, ha la sua ragione in una scelta etica che non può essere legata solo alla conoscenza, ma alla volontà di voler riabilitare il settore specifico della cultura artistica, spesso considerata marginale alla stregua del degrado socio-economico del territorio calabrese. Tale scelta di campo non ha le sue radici in un campanilismo becero, ma nella profonda consapevolezza che la perdita, l’alterazione e l’ignoranza sul patrimonio artistico, quindi la scarsa conoscenza della storia, sono le cause di pregiudizi spesso venati di discriminazioni soprattutto da parte di chi vive in altri contesti, ma particolarmente sono sintomatici di un crescente degrado che permea anche le classi più elevate, attive o apparentemente tali nella cultura del territorio. Inoltre, si e ormai consapevoli che la scelta di operare in modo capillare e critico in aree provinciali viene valutato spesso come fattore penalizzante soprattutto da quanti operano in contesti dinamici e cardine della Storia dell’Arte, ma anche questa determinazione, che con il passare del tempo si struttura nel suo carattere, e dettata da una scelta campo. In tale ottica non solo il risultato di questa rivista acquista per il suo decentramento un valore diverso, se valutato contestualmente ad altri fattori contrassegnanti il territorio, ma anche altre iniziative, pensiamo alle più impegnative mostre o ai più effimeri incontri culturali di ogni ordine a grado assumono un valore diverso di sollecitazione, recupero, acquisizione storica e critica. Inquadrando il progetto editoriale di questo periodico in tale contesto critico non si vogliono certo giustificare alcuni contributi che talvolta possono apparire eccessivamente dediti allo studio di aspetti artistici non sempre rilevanti, poiché legati a tematiche e problematiche prettamente territoriali nei quali spesso si celano intuizioni e dati di indiscutibile valore, quanto piuttosto usare questa scelta di fondo come sfida per opporsi alla vedetta della storia contro chi la trascura, per usare una riflessione dell’erudito e filosofo calabrese Pietro Ardito; e allora dalla riconsiderazione di alcuni episodi artistici apparentemente noti o scontati, dalla loro ricontestualizzazione o analisi critica, da inaspettate scoperte che emergono dall’oblio che lasciano esterrefatti per le implicazioni ed il peso che assumo in un più vasto contesto storico artistico si attinge la forza per continuare ad operare nella convinzione che esistono diversi punti di vista, non sono solo quelli delle capitali dell’arte con il loro monopolio storico artistico, ma la forza di credere che e tutto relativo e che anche nei contesti apparentemente depressi possono nascere intuizioni indubbiamente utili alla comunità scientifica, soprattutto quella priva di pregiudizi e discriminazioni.




Anno XV, nn. 29-30, 2022

Editoriale 

TUTELA, RESTAURI O DISASTRI? IL DESTINO DEI BENI CULTURALI 

di Mario Panarello 

Per un periodico come Esperide, nato per la divulgazione della ricerca scientifica nel campo dei Beni Culturali, non è possibile sottacere l’imbarazzante disinteresse e abbandono a cui spesso sottostà il patrimonio artistico e monumentale della regione. Come più volte evidenziato in vari studi, i terremoti sono stati fra i più grandi disastri che hanno afflitto molti centri del territorio calabrese, con risultati com’è noto devastanti, in moltissimi casi quasi annientanti. Nondimeno il “flagello” del tempo, attraverso il più o meno consapevole intervento dell’uomo, continua a dilagare sovente nella completa ignoranza, o nell’assoluta mancanza di sensibilità, di chi vive i luoghi o ancor peggio di chi dovrebbe operare per la tutela e la valorizzazione del patrimonio artistico. L’argomento è ovviamente complesso e ricco di sfaccettature ed implica una miriade di aspetti connessi alla problematica: dagli interessi personali o collettivi, al disinteresse o al menefreghismo, non trascurando le pressioni di ogni natura che spesso condizionano i risultati, fattori che portano nel peggiore dei casi alla distruzione lenta del bene, in altri ad una sua completa trasformazione; sovente, infatti, si assiste ad una sorta di restyling, spacciato quale restauro, che affievolisce se non azzera l’identità storica del manufatto antico. In gran parte dei casi siamo dunque lontani da interventi coerenti che rispettino la storia dell’opera d’arte e della sua pelle, il cui livello di accettabilità è estremamente ridotto. Ovviamente ciò vale per opere pubbliche e private dalle problematiche estremamente diversificate, per le quali individuare le responsabilità è spesso complesso.
Certo non basta un editoriale per una trattazione esaustiva di questo tema dolente, poiché sono tanti gli esempi che si affollano nella mente di chi viaggia sul territorio alla ricerca di quelle tracce appartenenti alla storia della cultura artistica, con la volontà di carpire quell’identità a cui di frequente ci si appella con orgoglio da storici, politici, viaggiatori e intellettuali di ogni sorta, ma che di fatto sempre più si affievolisce dinanzi ai nostri occhi.
In questo limitato contesto mi soffermerò su due esempi di antiche residenze nobiliari (l’architettura infatti è quella che sembra maggiormente soffrire questa situazione); si tratta dei palazzi d’Ippolito a Lamezia Terme e Bisogni a Briatico, di cui chi scrive è testimone prima attraverso la paziente ricerca, anche archivistica, quindi lo studio e un’analisi critica dei manufatti, poi con la conoscenza diretta e reiterata degli stessi e della loro storia, per divenire in ultimo il triste spettatore di quello che potrebbe essere paragonato al “pietoso ufficio della sepoltura”, ma forse ancora peggio, poiché non si tratta di una morte fisica del manufatto, ma di quello che potrebbe essere commentato come una sua emancipazione dalla storia; dalla storia del gusto e dello stile, dalla funzione stessa del bene, dunque dalla vita che assieme ai proprietari era destinato ad assolvere, quindi una progressiva e inesorabile caduta nell’oblio in cui, in luogo di queste, a prevalere sono ben altre istanze. Palazzo d’Ippolito, edificio vincolato dalla Soprintendenza circa trent’anni fa, recentemente ceduto a nuovi proprietari dalla famiglia di origine, è, o era, uno degli edifici più importanti esistenti sul territorio meridionale, per la particolarità della sua decorazione a stucco. Studiato con il riscontro di alcuni documenti e la naturale contestualizzazione storica già 25 anni fa, è stato altresì oggetto di attenzioni in diversi studi, nonché discusso in convegni internazionali e conferenze, talune organizzate da enti accreditati, quindi è stato materia di tesi di laurea, alcune delle quali di diagnostica, sfociate in pubblicazioni scientifiche disponibili anche on line. Tutto ciò potrebbe apparire come una forma di gretto campanilismo da parte di chi è proiettato su ben altri orizzonti (si tratta dei “grandi” agenti della storia) e considera ostinato chi promuove ciò che magari è ritenuto di poca importanza non fosse altro per ubicazione geografica, ma dinanzi al parere autorevole di Marcello Fagiolo che nel lontano 2002, approdato in Calabria per la presentazione dell’Atlante del Barocco dedicato alla regione, chiedendomi di fare un giro per i palazzi di Nicastro, esclamò osservando l’edificio nicastrese, unico nel suo genere a presentare decorazioni plasmate in funzione della luce mattutina di primavera: “non ho mai visto nulla del genere in Italia”, mi pare allora che l’importanza del bene debba considerarsi consacrata.
Ebbene il restauro o meglio il restyling “de noantri”, come direbbero i romani, ha ritenuto opportuno scialbare gli stucchi plasmati nel secondo Settecento dai Frangipane (come gli studi hanno dedotto) con una cromia grigio chiaro che di fatto ha appiattito la volumetria dei rilievi (fig. 1), azzerando ogni valore plastico che le originarie tinte invece esaltavano (uno dei tanti casi che avrebbe invece necessitato di un restauro conservativo del fronte), così quella che appariva una delle più belle facciate con decorazione a stucco della regione (figg. 2, 3) è stata spenta quasi definitivamente; già! perché è forse meglio che quanto sia rimasto indenne dai sismi venga definitivamente ammutolito. In verità allo stato attuale non si comprendono né le ragioni, ammesso che ci siano, né le responsabilità, mentre si auspica l’intervento delle autorità competenti.
L’altro pietoso esempio è quello di un ancor più grande palazzo che un tempo era uno dei più eleganti e monumentali della costa tirrenica calabra, palazzo Bisogni a Briatico (figg. 4, 5), probabilmente già residenza degli ultimi feudatari del centro, i Pignatelli di Monteleone che, a seguito dell’eversione della feudalità, lo cedettero a quella famiglia i cui molteplici eredi oggi ne possiedono la proprietà. L’edificio, è attribuibile all’abile architetto Pietro Frangipane di Monteleone, attivo fra gli ultimi decenni del Settecento e i primi dell’Ottocento, allievo forse di Giuseppe Vinci e collaboratore del nipote di questi, Giovan Battista. Il Frangipane fu un architetto molto impegnato nel campo dell’architettura pubblica e privata il quale contribuì anche alla definizione dell’impianto urbanistico della nuova Briatico a seguito della dichiarata inagibilità post sismica dell’antico centro più a monte. Molti sono i richiami della dimora al gusto vanvitelliano fra cui la tripartizione del fronte dell’edificio e l’utilizzo del bugnato listato, messo a punto dal grande architetto romano nella reggia casertana. Il palazzo assieme ad altri faceva parte di un sistema residenziale dai connotati singolari, poiché alle più o meno grandi dimore edificate nella nuova cittadina erano affiancati diversi edifici in primis necessari alla gestione dei territori circostanti, in una sorta di raro esempio di centro che coniugava le due funzioni, generalmente destinate alle dimore extraurbane. Dunque, non solo il palazzo non è ancora vincolato, ma è abbandonato a se stesso nella fervida speranza di gran parte dei cittadini, e non solo, che venga abbattuto o crolli per fare spazio magari a moderne e funzionali palazzine, malcelando un certo fastidio nei confronti della storia, vista più come attrattiva folclorica di un soprammobile kitsch, cui sembra relegata la Rocchetta, quest’ultima oggetto per fortuna di continui interventi, ma immersa in un contesto desolante in cui è coinvolto anche un esempio raro di architettura contemporanea di un allievo di Frank Lloyd Wright. 
Insomma… ci sembra utile richiamare Dante nel poco confortante verso dell’Inferno “lasciate ogni speranza, voi ch’intrate” … mentre le stelle “istituzionali” stanno a guardare.

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